"Il breve incanto" di Galanga raccontato da Massimo Lardi

Il breve incanto. Poesie di un appassionato di funghi di Ennio Emanuele Galanga*

Di Massimo Lardi

Il breve incanto. Poesie di un appassionato di funghi si intitola una raccolta di 19 componimenti poetici dell’ampiezza di una fino a quattro pagine, con strofe di ampio respiro, che ricordano la canzone, inframmezzati da quattro “Intermezzi” intitolati alle quattro stagioni, ognuno composto di un numero variabile di strofette che rimandano in qualche modo alla canzonetta. Il libro è riccamente illustrato con le fotografie dei funghi nel loro ambiente naturale (una cinquantina) e con riproduzioni di opere d’arte sullo stesso argomento (una decina). Si conclude con un apparato di note essenziali sulla metrica e sul contenuto di varie composizioni, nonché con una lista degli autori delle fotografie e dei dipinti (Silvia Corradini in primis, Anna Galanga e pochi altri). 80 pagine di vera poesia e di vero incanto – breve in quanto riferito alla vita per lo più effimera dei miceti – come promettono il titolo e il sottotitolo dell’opera.

Canzoni libere; così definirei le poesie di lungo respiro, composte di endecasillabi, novenari e settenari, i versi principe della metrica italiana. Alludono all’impegno della ricerca e all’attenzione della raccolta e del trasporto a casa. Rievocano esperienze, occasioni intime e particolari, nonché studi storici e scientifici. In esse si riproduce l’incanto del fungaiolo di fronte a quelle creature meravigliose, percepite e godute con tutti i sensi nell’atmosfera fatata dei boschi e nel variare delle stagioni. Si lodano i piaceri della raccolta e della composizione nei canestri, i piaceri conviviali che procurano, si inneggia al piacere di riceverli in dono. Si insegue il mistero dei funghi velenosi e allucinogeni fin dentro civiltà storiche e preistoriche: azteche, Messico 300 d.C. (Sacre visioni: I) e tassìli, Algeria VII-VI millennio a. C. (Sacre visioni: II). Si riscopre il valore simbolico dei funghi nell’arte cristiana medievale, con il bell’esempio di tali piante che germogliano dalla testa di S. Paolo nella chiesa di Müstair nei Grigioni, metafora del Salvatore nato senza seme, della sua morte e resurrezione (Sacre visioni III) . E tante altre esperienze ancora, come  l’analogia tra le stelle filanti di San Lorenzo e la copiosa e variopinta messe di funghi, figli della terra (Dal cielo). Come la splendida figura del nonno che appare in vari versi quale nume tutelare, apre l’opera  al momento che infonde la sua passione di micologo al futuro poeta (La gioia del nonno) e la chiude in modo speculare con la sua morte precoce, quando il nipote è ancora bambino (Il dolore del nonno).

Per l’esattezza gli “Intermezzi” sono costituiti da un numero variabile di haiku, brevissima forma chiusa di poesia, di derivazione giapponese: si tratta di diciassette sillabe cadenzate in tre versi di cinque, sette e cinque sillabe. La rima è inoltre una scelta "italianizzante" dell’autore. In questi rapidi schizzi poetici, egli richiama lo sguardo veloce ma mai indifferente che spesso rivolgiamo al sottobosco, nel quale percepiamo o intuiamo le forme e i colori delle presenze micologiche, che variano con il variare delle stagioni. Dedica pertanto cinque haiku alla primavera, sette all’estate, otto all’autunno quasi a sottolinearne l’abbondanza; ricorda un solo tipo di funghi per l’inverno, quello dei lignicoli (la fomitòpsis pinìcola) per significarne l’assenza. In questa stagione la natura riposa (dorme il micelio) sotto la neve, ma l’incanto permane sotto altra forma: “Ma vive in tavola/ l’ininterrotta favola/ coi funghi secchi”.

Le didascalie delle illustrazioni riportano rigorosamente il nome scientifico in latino (bolétus edùlis, bolétus erythropus, xeròcomus bàdius,  amanìta caesàrea, amanìta muscària, amanìta phalloìdes, amanìta pantherìna, amanìta solitària e così via di seguito), nomi difficili da ritenere per il semplice appassionato. Ma i nomi in volgare illuminano i versi, per cui il bolétus diventa il porcino, il suìllus grevìllei si fa il laricino,  cantharèllus cibàrius il gallinaccio detto pure cantarello, la macrolepiòta procèra la comune mazza di tamburo. Nomi che anche la signora Serena, assidua frequentatrice di corsi di micologia, riesce ad imparare e le servono per distinguere i funghi buoni da quelli “matti”.

A dispetto delle informazioni scientifiche, la poesia e l’incanto dominano comunque incontrastati. Nessuna concessione a una facile vena fabulatoria e celebrativa, niente verso libero che sciaguatta con la prosa. Galanga scommette invece sulle forme chiuse (e non solo italiane), sulla tecnica, sul saper fare, sulla riconoscibilità della poesia anzitutto come arte poetica. Trova la sua collocazione perfetta proprio nell’artificio, nella convenzione, nella clausura del metro. Accetta la tradizione del verso come una condizione prima della sua poesia. I suoi versi sono impreziositi di tutti gli accorgimenti metrici e retorici – figure semantiche, sintattiche e foniche – che vanno dalle tradizionali rime, rime al mezzo e paronomasie alle più moderne analogie e sinestesie. Bastano pochi versi per accertarsene: «Mute lance di luce tra le fronde / filtravano, vibranti elitre argentee / miniavano improvvise e intermittenti / agli intarsi iridescenti. / Felici e svelti passi ed allungati / müoveva il bambino sul sentiero, / il sorriso e lo sguardo indirizzati / al mite familiare chiaroscuro» (La gioia del nonno). Galanga si cimenta con virtuosismo persino con il difficile ostacolo dell’acrostico (v. Amanita caesarea a p. 13). Ne lasciamo per intero la scoperta al lettore.

Ma la cifra peculiare della sua poesia va ben oltre l’abilità della versificazione; è la sua straordinaria inventiva metaforica. Il meraviglioso fungo con il suo tempo ciclico e la fugacità della sua esistenza diventa la metafora della vita dell’uomo con le gioie e i dolori, il bisogno di natura, di cultura, di conoscenza dello spirito oltre che della materia. L’incanto personale riceve una significazione cosmica attraverso le spontanee rispondenze che si ricollegano  al teatro universale della vita. Ne fanno fede versi come i seguenti: «S’annulla intanto in cuore la distanza/ dai girotondi dell’infanzia, / che adesso conosciamo dolce e breve,/ e dunque sappïamo vero e greve / quanto prossimo incombe un altro appello, /noi «tutti giù per terra»: ch’è l’era del ritorno, / attonito e inadorno, / alla comune madre antica (In Cerchio, p. 22).

* Ennio Emanuele Galanga, Il breve incanto. Poesie di un appassionato di funghi, Associazione Micologica Retica Martino Anzi, Tirano 2014.

 

 

 

  

 


Data: 05/10/2014