15/05/2012, 11:58 ... veniamo a Teglio
Fatte queste premesse- occupiamoci di questo caso- raro, di questo agriturismo valtellinese dove oltre il 70% del valore di cibi e bevande somministrate alla clientela è di origine aziendale. Qualcosa di eccezionale tenendo anche conto che la Legge della Regione Lombardia sull’agriturismo prevede che si debba raggiungere il 30% di prodotto aziendale. Come fa l’agriturismo La Piana di Teglio ad avere così tanti prodotti propri? Il segreto è nella natura policolturale e poliallevatoriale dell’azienda che- ha mantenutole caratteristiche dell’azienda famigliare- di montagna.- Come in- passato l’azienda- sfrutta tutta o quasi l’escursione altimetrica -del versante. Si parte. dai 600m dervigneti della località Valgella (dove si ottiene l’omonimo vino, uno dei cru del Valtellina superiore docg) per arrivare agli 800m della sede dell’azienda e quindi risalireai 900 m dei campi (patate, grano saraceno), ai 1.050 m della stalla, ai 1.200 dell’agriturismo (ristorazione e tre-camere) ai 1.800 dei pascoli di Prato Valentino frequentati dal gregge aziendale. La gestione zootecnica è affidata a Paolo (Paolone) che vediamo nella foto sopra nella stalla con le sue OB (per sapere cosa sono le OB vedi l’articolo di qualche giorno fa qui su Ruralpini). Vi sono una ventina di capi di razza Bruna (in conversione OB) che in estate - con Paolo - vanno in alpeggio a Livigno. Paolo preferirebbe tenere la mandria sui pascoli di casa ma il grosso degli alpeggi di Teglio sono sul versante orobico e sono utilizzati da altri allevatori. Sulla sponda retica Teglio non ha grandi estensioni di pascoli. Per di più l’edificazione di Prato Valentino (piccola realtà sciistica) ha ridotto le possibilità di pascolo. Il gregge di pecore da carne (un centinaio di capi) utilizza ugualmente i “pascoli di casa” ma non senza problemi. L’allevatore racconta di come è stato chiamato una volta da turisti furibondi perché le pecore per mettersi all’ombra si erano collocate sulla loro terrazza e avevano “orrendamente sporcato” (tanto che per calmarli sono dovuti andare su a pulire). Ai turisti le pecore piacciono da lontano verrebbe da dire quando fanno tanto “bucolico”. Finché sono “paesaggio”. Sotto vediamo alcune delle pecore del gregge ricoverate nella vecchia stalla delle mucche. Solo qualle che hanno partorito da poco, le altre erano al pascolo sotto la pioggia. Nell’agriturismo si consumano carni bovine, ovine e suine fresche e lavorate di esclusiva origine aziendale. Si consumano anche formaggi prodotti da Paolo. Qui il formaggio tradizionale è un semigrasso che viene curiosamente chiamato “Feta”. Una denominazione che non ha molte chances di accedere alla Dop per evidenti ragioni ma che a Teglio, chi è attento alla salvaguardia della cultura agroalimentare locale, cerca di salvaguardare e di non confondere con il Casera, che è dop, ma che è una dop frutto della standardizzazione delle varie produzioni invernali locali (Magnocca, Matüsc, Scimüda ecc. ecc.). La ricetta dei pizzoccheri dell’Accademia del Pizzocchero di Teglio, che punta a codificare la preparazione dei pizzoccheri in ambito provinciale ma anche oltre (ci sono locali valtellinesi aderenti all’Accademia anche a Bergamo e Roma), prescrive l’uso del Casera Dop. Alla Piana, inceve, si usa la Feta aziendale. Si usa anche il burro aziendale. Tutto ciò è ammirevole. C’è da commuoversi alle lacrime quando si scopre che anche tutto il resto è aziendale, non solo gli ortaggi e le patate ma anche la farina di grano saraceno. Qui entra in scena l’altro fratello altrettanto ben piantato di Paolo che si occupa delle coltivazioni. C’è da commuoversi alle lacrime quando si scopre che anche tutto il resto è aziendale, non solo gli ortaggi e le patate ma anche la farina di grano saraceno. Qui entra in scena l’altro fratello Fanchi: Andrea, anch’egli ben piantato, che si occupa delle coltivazioni. Sotto lo vediamo con legittimo orgoglio e compiacimento osservare un mio commensale che si serve dal piatto di portata. Non è da tutti poter dire che quei pizzoccheri sono “tuoi” in tutti i sensi: dalla semina alla cottura da parte della mamma e della sorella Emanuela. E quanta storia dietro quella farina... Come si può osservare dalle foto il pizzocchero è molto scuro. Qui, però, ci sarebbe da fare una disgressione perché il pizzocchero non si chiama “pizzocchero” ma “Tajadin” (ovvero... tagliatella). Tanto è vero che nella cucina di qui (peccato non averla potuta provare) c’è la zuppa di tajadin, un piatto in brodo. I pizzoccheri sono quelli cucinati e conditi serviti nel piatto. Tajadin scuri dicevamo. Anche i pizzoccheri secchi industriali, potrebbe osservare qualcuno, cosa c’è di notevole e apprezzabile in quel colore carico? , La realtà è che i pizzoccheri secchi industriali sono finti. Non solo sono finti nel nome (visto che la tradizione denomina pizocchero il piatto e non la preparazione pastaia) ma finti perché fatti DI sfarinati di grano duro canadese e CON farina molto ricca di PULA di grano saraceno. È la pula che conferisce il colore scuro e nel pizzocchero finto la si usa per “fare rustico” per conferire un colore che il grano duro non possiede di certo. Nel caso della Piana la farina è scura perché macinata in modo tradizionale nel mulino a pietra (oggi si va a Grosotto ma si sta riattrezzando anche un vecchio mulino a pietra ad acqua in paese). La differenza tra questa farina e quella più “sbiancata” (ovvero macinata più fine e separata da una parte della pula) la si vede maggiormente negli sciatt. Gli sciatt sono una forma accattivante (ma recente) della frittella tradizionale di farina integrale di grano saraceno. La pastella è fritta nell’olio (nelle famiglie si usa ancora oggi lo strutto) con un cubetto di formaggio (per il tipo di formaggio vale quanto sopra osservato); ne deriva per rigonfiamento sotto l’effetto del calore della frittura un “bignè” (si mangia in un solo boccone) con delle “appendici” che l’immaginazione di qualcuno ha assimilato a delle zampette di rospo (sciatt in lombardo). Di qui il nome. In realtà le frittelle tradizionali erano più grosse e appiattite (simili ai chisciöi di Tirano, località non distante). Gli sciatt che ho avuto la fortuna di provare a La Piana sono quelli preparati con la farina macinata “all’antica”, naturalmente ricca di pula e quindi scura. “Li facciamo così solo per noi e qualche volta per chi li conosce, chi non li conosce ce li manda indietro perché dice che sono “bruciati” non conoscendo la farina”. I guai della diseducazione del consumatore che condizionato dall’industria e dalla Gdo disdegna la carne frollata al punto giusto (“puzza”), disdegna la frutta matura al punto giusto (“è marcia”). Non vuole ciò che è più nutriente, sugoso, gustoso ma quello cui è stato abituato dal sistema alimentare. Gli sciatt “bruciati” si sono rivelati i migliori mai assaporati: giusta croccantezza, spessore e consistenza dell’involucro, gusto pieno del saraceno. Altro che certi “visi pallidi” magari anche flosci... La Piana è un esempio di vera gestione famigliare, c’è chi alleva, coltiva, cucina ma c’è grande connessione tra tutti e tutto. Ognuno ci mette il suo impegno e le proprie competenze ma il fine è uno solo. Sono loro stessi a illustrarcelo, a spiegarci qual’è lo spirito che anima tutta l’attività dell’azienda, il vero “segreto”. “Abbiamo continuato a produrre tutto quallo che un tempo si produceva per noi per il consumo famigliare, non abbiamo voluto ingrandirci... oggi questo consumo famigliare lo abbiamo esteso alla gente che viene qui a mangiare, ma la sostanza non è cambiata”. Un “autoconsumo esteso” o se volete una filiera cortissima è la chiave di questo agriturismo. L’invito è a venire a provare direttamente. Augurandovi di godere di una bella giornata di sole (non come quella nebbiosa in cui sono capitato io) magari mangiando all’aperto sulla terrazza (sotto) e contemplando le Orobie di fronte. |
cristina culanti
Autore dal 27/10/2021
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