ACQUA: pubblica, privata o pulita?
ACQUA: pubblica, privata o pulita?

L’acqua è un bene comune, il suo utilizzo deve rispondere a criteri di utilità pubblica e Legambiente è assolutamente contraria ad ogni norma che obblighi alla privatizzazione del servizio idrico nel nostro Paese.

Un tema quello della privatizzazione dell’acqua, tornato improvvisamente di attualità con l’approvazione della legge comunitaria alla fine del 2009 che prevede l’obbligo di affidare tramite gara i servizi idrici.

Beninteso, alle gare potranno partecipare teoricamente anche le imprese pubbliche: in base al nuovo decreto è il meccanismo di affidamento a cambiare, non la proprietà dell’impresa, che potrà essere, come è stato finora, pubblica, privata o mista, ma è chiara la volontà di indirizzarsi verso la privatizzazione di tutti i servizi pubblici comprendendo fra questi anche l’acqua.

Ma l’attenzione verso il tema della privatizzazione dell’acqua in realtà non è mai del tutto venuta meno, anche se sull’argomento grava l’estrema difficoltà di vedere la questione rappresentata nei suoi, tanti e indiscutibili aspetti, fuori dalle opposte tifoserie di chi idealizza la gestione pubblica dell’acqua, come se fosse garanzia di servizio equo ed efficiente, e di chi idolatra quella privata.

Per questo può essere utile ricapitolare almeno qualcuno di questi aspetti, indispensabili per formarsi un giudizio equilibrato.

1. In Italia per molti decenni l’acqua è stata distribuita agli utenti da soggetti interamente pubblici, ma ciò non ha impedito che questo “bene comune” venisse amministrato in modi inappropriati e anche iniqui. Sono eredità di questa lunga stagione lo stato fatiscente della nostra rete acquedottistica specialmente al sud, il fatto sicuramente anomalo che in un paese relativamente abbondante di risorse idriche centinaia di migliaia di persone ancora oggi abbiano l’acqua razionata, l’inadeguata rete di fognatura e depurazione di cui sono sprovvisti ancora oggi il 30% degli italiani. Non va dimenticato però che ci sono state anche gestioni pubbliche che in alcune parti del Paese hanno garantito un servizio efficiente e efficace.

2. L’acqua in Italia costa troppo poco, negli usi civili come in agricoltura, e anche per questo se ne consuma troppa. Il prezzo medio dell’acqua domestica, che pure negli ultimi anni è sensibilmente cresciuto e che oggi è di poco superiore a un euro a metro cubo, resta tre volte più basso che in Francia e quattro volte più basso che in Germania. Decisamente superiore alla media europea è invece il consumo di acqua potabile per usi civili, che in quasi tutte le città italiane supera i duecento litri giornalieri per abitante. Fatto salvo l’accesso universale al servizio e quindi la garanzia della fornitura di un minimo vitale per ciascuno, il prezzo dell’acqua va fissato a un livello che tenga conto che si tratta di un bene scarso, finito, probabilmente destinato a scarseggiare sempre di più per effetto dei cambiamenti climatici, e dunque da consumarsi parsimoniosamente.

3. Distinguere in modo rigido, come fanno molti paladini della privatizzazione, tra proprietà dell’acqua che deve rimanere pubblica (come peraltro sancito da innumerevoli norme di legge econvenzioni internazionali), e gestione del servizio che va affidata ai privati, è una formula astratta. Se come sta avvenendo in quasi tutti i casi di privatizzazione del servizio, i “privati” che gestiscono l’acqua sono grandi imprese multinazionali mille volte più strutturate e influenti degli enti pubblici (comuni, consorzi di comuni, Ato) “custodi” delle reti e dell’efficienza, dell’efficacia, dell’equità del servizio, questo rende assai complicato per i “controllori” fare valere l’interesse pubblico nei confronti dei “controllati”, e presenta il forte rischio che i gestori privati incassino iprofitti della vendita del prodotto-acqua e ai controllori pubblici resti l’onere, in Italia quanto mai pesante, della modernizzazione e della manutenzione delle reti.

4. Non è vero che l’Europa impone agli stati membri la privatizzazione dei servizi idrici. In base alle leggi comunitarie, ogni paese deve affidare al mercato la gestione dei servizi pubblici locali “di rilevanza economica”, ma a decidere se l’acqua rientri o no in questa categoria sono i singoli Stati. Così in Europa ci sono paesi dove la privatizzazione dei servizi idrici si è quasi del tutto compiuta, altri dove l’acqua è gestita tuttora da soggetti pubblici, altri ancora dove realtà territoriali anche molto rilevanti che avevano optato per la privatizzazione ora stanno ripubblicizzando la gestione dell’acqua (il caso più noto e importante è quello di Parigi).

5. Il modello di gestione idrica urbana deve essere profondamente rinnovato. Da oltre un decennio, ad occhi esperti di tutto il mondo (www.otterwasser.de/english/sane.htm), risulta sempre più chiaro che il modello di gestione delle acque nelle nostre città - basato su “prelievo, distribuzione, utilizzo, fognatura, depuratore, restituzione al corpo idrico” – non è sostenibile, perché comporta un uso eccessivo di risorse idriche di altissima qualità (chi ha detto che per scaricare un WC si debba usare acqua potabile?), perché produce inquinamento che può essere solo parzialmente ridotto ricorrendo alla depurazione, perché non considera la possibilità di usare le acque di pioggia e le acque grigie depurate, perché non si cura di riutilizzare risorse preziose come l’azoto e il fosforo contenute nelle “acque di scarico”.

Quanto detto fin’ora dimostra che sono infondate tanto l’equazione tra gestione pubblica e uso equo ed efficace del “bene comune” acqua, quanto quella tra privatizzazione e gestione efficiente. Allora, molto meglio sarebbe lasciare a Comuni e Regioni (a queste ultime, tra l’altro, la nostra Costituzione riconosce competenze rilevanti in materia) la scelta su come sia meglio gestire i servizi idrici, tenendo ben presente che si tratta di un bene non privatizzabile che non deve sottostare a criteri mercantili.

Gli Enti locali devono mettere in campo una forte, autorevole, indipendente autorità pubblica chiamata a controllare che le gestioni rispondano ai criteri di un uso socialmente equo e ambientalmente sostenibile dell’acqua.

È su questo aspetto che Legambiente deve fare sentire la sua voce, sostenendo che l’acqua, bene comune, prima di tutto deve essere pulita: una sfida collegata alla scelta del modello di gestione dei servizi idrici visto che chi gestisce reti e servizi idrici deve anche farsi carico dei servizi di fognatura e depurazione. Ma la sfida ambientale della gestione della risorsa idrica non si ferma qui: si deve passare dalla “gestione della domanda” alla “pianificazione dell’offerta”, cioè occorre superare l’approccioper cui prima si sommano le richieste idriche (industriali, agricole, civili) e poi si cerca disperatamente di soddisfarle, partendo invece dalla disponibilità idrica, bacino per bacino, e inseguito pianificare conseguentemente le attività. Un passaggio che deve essere preceduto dalla redazione di un bilancio di bacino (come da legge 183 e direttiva 2000/60) aggiornato a livello nazionale, un quadro sulla disponibilità della risorsa, usi e consumi visto che gli ultimi dati completi risalgono al 1999 (rapporto IRSA-CNR Un futuro per l’acqua in Italia) a cui hanno fatto seguito solo alcuni aggiornamenti a scala di bacino o regionali.

Mentre fornire buona acqua a tutti è una “mission” sostenuta da ragioni di consenso (nel caso delle gestioni pubbliche) o di minimizzazione del rapporto costi/profitti (nel caso delle gestioni private), l’altra faccia del ciclo dell’acqua, quella delle reti scolanti e degli impianti di depurazione, non beneficia né di consenso (quale sindaco pensa di vincere o perdere le elezioni promettendo di rimettere in sesto la rete fognaria, o di migliorare il depuratore comunale?), né di vantaggio economico (fognature e depurazione sono solo voci di costo, da comprimere).

La strada del risanamento idrico in Italia è dunque tutta in salita, in modo indifferente dalla tipologia di gestionedei servizi idrici (civili, ma anche agricoli e industriali): essa dipende dall’imposizione di nuove regole e dalla capacità (in capo al sistema pubblico) di farle rispettare. Se non saremo capaci di portare questa priorità all’interno della discussione sulle gestioni idriche, il nostro non sarà un contributo utile ad elevare il dibattito, tutto schiacciato su posizioni ideologiche: i fiumi e le falde del nostro Paese sono ancora inquinate, anche le fogne “perdono” e non solo gli acquedotti, i depuratori sono ovunque inadeguati, la gestione dei corpi idrici naturali è tutta orientata all’artificializzazione e all’eccesso di sfruttamento della risorsa: la distanza tra lo stato di salute delle nostre acque e le scadenze imposte dalle direttive comunitarie aumenta ad ogni giornoche passa.

L’acqua non è solo quella cosa che esce dal rubinetto di casa, ma anche quella che scroscia sui tetti quando piove e finisce impropriamente nelle fogne, quella che si trova nei fiumi, nei laghi e nei mari, quella che viene usata per irrigare i campi o raffreddare gli impianti delle industrie, quella che giace nel sottosuolo. L’acqua non è un bene pubblico e men che meno privato, ma un bene comune, di cui dobbiamo assumerci la responsabilità, come cittadini e come ambientalisti.

Non possiamo rivendicare una pubblicità dell’acqua fino al momento in cui giunge al nostro rubinetto, salvo dimenticarcene dal momento in cui essa esce dallo scarico del lavandino o del WC. L’acqua è un diritto, ma anche una responsabilità di cui dobbiamo farci carico, dall’esercizio diquesta responsabilità dipende la qualità di fiumi, laghi e acque marine costiere. Senza questadichiarazione di responsabilità perde senso qualsiasi adesione a movimenti e comitati per l’acquapubblica. Se rispettiamo l’acqua, altri potranno usarla dopo di noi, e altri potranno fruire di ambientiacquatici non inquinati e accoglienti per l’uomo e le specie animali e vegetali che li popolano. Del resto, cos’altro chiedono le nostre campagne e vertenze sulla qualità delle acque, si tratti di GolettaVerde, Goletta dei Laghi o delle campagne sulla qualità delle acque fluviali? Bisogna dire che la nuova legge non cambia il quadro, anzi lo peggiora fortemente, perché non compie alcun passo avanti verso la risoluzione dei veri problemi del settore idrico, rinviando semmai di altri due-tre anni almeno l’avvio a regime del sistema. Anni che andranno perduti tra bandi di gara, carte da bollo, ricorsi al Tar, sgambetti reciproci tra gli aspiranti candidati. Le aziende saranno impegnatissime nel preparare offerte e stringere alleanze, e la gestione continuerà a navigare a vista. A rimanere al palo saranno, ancora una volta, gli investimenti, che già oggi scontano ritardi enormi. La riforma del 1994, secondo il legislatore, doveva andare a regime in un paio d’anni al massimo: ne sono passati sedici, nel corso dei quali gli investimenti fatti sono risultati inadeguati. E anche ora che faticosamente la farraginosa macchina messa in piedi dalla legge Galli si è messa in moto, i dati mostrano che gli investimenti effettivamente realizzati sono meno della metà di quanto i piani avevano previsto. Nel frattempo, incalzano le procedure di infrazione per le direttive europee che non abbiamo ancora incominciato ad attuare, e i nostri fiumi e laghi soffrono per l’inadeguatezza di un sistema di depurazione fatiscente. 34 anni di passi avanti: i capisaldi da non mettere in discussione. La materia idrica è stata una delle prime a dotarsi di una legislazione di tutela ambientale nel senso moderno del termine. La Legge Merli del 1976 fu la risposta, adeguata per l’epoca, ad un fenomeno di inquinamento grave e fortemente percebile. Nel tempo sono emersi crescenti e più consapevoli esigenze, connesse alla comprensione della caratteristiche della risorsa idrica. I principi su cui oggi vi è generale e convinta condivisione non sono affatto un dato scontato, ma conquiste rese possibili dalla crescita di sensibilità e consapevolezza ambientale, che noi stessi abbiamo contribuito adalimentare con le nostre battaglie e campagne ambientaliste.

Vale la pena di ricapitolarli brevemente:

− L’acqua è risorsa limitata ma, fondamentalmente, rinnovabile, e ciò dipende dalfunzionamento di un ciclo naturale, sul quale si innesta il ciclo dell’utilizzo (civile, agricolo eindustriale) caratterizzato da prelievo, impiego e restituzione. La ‘legge Galli’ del 1994 articola il sistema della governance dell’acqua sulla base della consapevolezza circa il funzionamento del ciclo dell’acqua, includendo la responsabilità sulla restituzione delle acque utilizzate, per cui chi si fa carico del prelievo deve garantire anche la restituzione secondo adeguati standard. Nel ciclo idrico integrato l’autorità d’ambito sovrintende, pianifica e monitora l’operato delle aziendeidriche. Le aziende, per incarico e sotto sorveglianza degli Ato, sono tenute perciò a farsi carico sia di quantità e qualità dell’approvvigionamento idrico, sia della restituzione delle acque usate che deve avvenire in modo compatibile con le caratteristiche del corpo recettore.

− L’acqua è un bene comune. Il principio è affermato chiaramente nella nostra legislazione, che stabilisce anche la priorità del soddisfacimento dei bisogni fondamentali dell’individuo ogni qualvolta insorga un conflitto tra più utilizzatori della stessa risorsa. Nessuno oggi mette indiscussione che l’acqua sia un bene della collettività nel suo complesso e come tale indisponibile ad un uso esclusivo a scopo di profitto (con l’eccezione, eclatante, delle concessioni per le acqueminerali...), anche se nel campo delle concessioni ad uso agricolo e industriale questo principio è ancora molto lontano dall’essere realmente applicato.

− Chi inquina paga. E’ un principio generale, assunto dalla legislazione comunitaria come riferimento-guida con il duplice obiettivo di rendere non vantaggiosi gli inquinamenti evitabili, e di recuperare risorse per le azioni di risanamento.

− Full cost recovery. E’ il principio introdotto dalla direttiva quadro in materia idrica (2000/60) che stabilisce che le gestioni idriche devono farsi carico dei relativi costi, attraverso tariffe che imputino agli utilizzatori appropriate quote di pagamento del servizio, anche e soprattutto per scoraggiare usi impropri e sprechi, oltre che in attuazione del principio “chi inquina paga” (facendosi quindi carico anche dei costi “esterni” che, se non coperti, determinano gravi impatti sui corpi idrici). Lo scopo è quello di evitare che sia la fiscalità generale a farsi carico dei costi di gestione del servizio idrico e che invece questo sia operato secondo principi di efficienza e sostenibilità ambientale, distribuendone equamente i costi sugli utenti.

− Obiettivi di qualità dell’acqua nei corpi idrici: la stessa direttiva impone a tutti gli stati membri l’obiettivo di uno stato di qualità "buono" dei corpi idrici da perseguire entro il 2015. Un simile stato di qualità richiede enormi investimenti su due versanti: la riduzione dei prelievi e il miglioramento delle caratteristiche delle acque restituite dopo l’uso, sia in termini quantitativi (riduzione delle portate non trattate e delle perdite della rete scolante) che qualitativi (efficientamento e upgrading degli schemi depurativi), anche prevedendo il riuso delle acque trattate.

La piena attuazione di questi principi richiede in Italia:

− l’estensione di un sistema di tariffe “full cost recovery” a tutti gli utilizzi (non solo civili, ma anche e soprattutto agricoli e industriali) al fine di assicurare la copertura integrale dei costi di gestione delle reti e degli impianti nonché la garanzia di copertura dei "costi esterni" connessi alle azioni di risanamento (adeguando in tal senso anche i canoni, ovvero la “tassa” che gli utilizzatori pagano per l’uso di un bene pubblico);

− investimenti sui sistemi di smaltimento delle acque di pioggia e degli scarichi, per estendere il servizio alle utenze tutt’oggi scollegate, e migliorare le prestazioni di quelli esistenti (riducendo gli apporti impropri di acque bianche, riducendo l’impermeabilizzazione e diffondendo l’insieme di soluzioni note come “SUDS, Sustainable Urban Drainage Systems). Si stimano enormi investimenti oggi necessari per ammodernare ed estendere la rete e l’impiantistica di fognatura e depurazione in Italia, pari a circa 60 miliardi di euro;

− Creare le condizioni - attraverso una riforma del D.M.185/2003 - per favorire realmente il riuso delle acque reflue, anche per i vantaggi economici e ambientali che possono derivare dal recupero dei nutrienti - azoto e fosforo - in esse contenuti;

− L’integrazione delle azioni di risanamento delle acque nei programmi di gestione del territorio, in primo luogo nei piani di gestione dei distretti idrografici e nei piani di sviluppo rurale, in quanto fortemente interdipendenti nel raggiungimento di obiettivi di qualità dei corpi idrici fluviali, lacustri e costieri.

 


Data: 08/03/2010
 
09/03/2010, 10:34
Acqua

La questione acque in Valtellina è negativa.
Bisogna suddividere il ragionamento in 3:

MORFOLOGIA (foto 1)
L’acqua necessita dei propri contenitori: i fiumi.

SFRUTTAMENTO (foto 2)
I fiumi devono essere vivi e perciò serve acqua.

INQUINAMENTO (foto 3)
L’acqua deve scorrere pulita.

Durante l’assemblea del 5 aprile
a Bormio ne parleremo.
Sei invitato!

per informazioni:  legambiente@bormio.it 

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Le foto riguardano Bormio e Valli




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