IL CONTRABBANDO DA APRICA ATTRAVERSO LA VAL BELVISO
Le vie del nostro contrabbando dal confine in poi di Luisa Moraschinelli In questi giorni, anche da queste pagine, abbiamo avuto occasione di leggere come un modo di procurarsi il pane, in tempi di crisi, era il contrabbando. Un lavoro che occupava i giovani delle nostre famiglie che non avevano alcun sbocco di lavoro se non saltuariamente. Infatti l’edilizia era quasi a zero, le frontiere per espatriare erano chiuse, l’agricoltura permetteva solo qualche giornata qua e là e stessa cosa per il bosco e... vivere si doveva vivere. Personalmente, anche se non ho praticato il contrabbando che in genere era riservato agli uomini, vivendo in quel periodo non potevo non conoscere i risvolti, visto che anche i nostri fratelli, se capitava l’occasione di fare un viaggio con il "sacco", non la rifiutavano. Ho notato, anche nei libri pubblicati sull’argomento, (vedi “la Carga”) che ci si limita a trattare il trasbordo in zona confine da Campocologno a Baruffini, ma la merce non si fermava lì e nemmeno a Tirano, ma proseguiva. Varie erano le strade e differenti a secondo dei tempi. Una delle più battute era quella sui vari passi delle Orobie e nel nostro caso, attraverso la Val Belviso, con direzione e termine di consegna, Schilpario, dall’altro versante delle Orobie. Strano che di questa via d’Aprica raramente se ne sia parlato e pensare che è forse l’unica via del Contrabbando cui è stato dedicato un murale sulla contrada St. Maria del paese. Oseremmo dire "un quadro d’autore" visto che l’artista, Alcide Pancot non può che aver dipinto una scena dal vero visto che lui era, ai tempi, finanziere e alla “Corna di finanzer” , cosi nominato il dipinto, si è trovato spesso in azione. Due erano le possibilità di percorso: quella di prendere il "sacco" alla strada di Liscedo dove dal confine veniva portato con un mezzo di trasporto e entrare, a piedi, nella Val Belviso; la seconda quella di prendere il "sacco" alla frontiera e portarlo a destinazione, sempre a Schilpario. Ai tempi quando la valle, nella stagione estiva era abitata, vi partecipavano non solo giovani e uomini, ma anche donne, ma queste solo nella prima fase, dalla strada di Liscedo alla propria baita in Val Belviso. Da li erano solo giovani o uomini robusti a fare i passi del Venerocolo e o altri. Partivano con il carico dalle loro baite e generalmente riuscivano a arrivare a destinazione nella tarda serata a consegnare la merce. Ma il viaggio più classico e affrontato solo da giovani robusti e che più volte abbiamo sentito raccontare dal vivo, incominciava già dal confine e ci volevano tre giorni prima di arrivare a destinazione. Sempre a piedi, dal confine scendevano al piano. Attraversavano l’Adda e risalivano il Monte Belvedere per ridiscendere e nei pressi di Aprica attendevano la notte, sperando di non incontrare la finanza. Dall’Aprica risalivano la montagna e proseguivano fino nei pressi di Frera dove oggi c’è la diga. Da lì proseguivano risalendo verso i Passi e il pericolo di incontrare la finanza era quasi nullo, ma la via più faticosa. Fortunatamente sul tragitto si trovava qualche baita dove poter pernottare. Emozionante il racconto pensando che tali baite erano chiuse solo con il catenaccio: una disposizione umana per dare la possibilità a qualche occasionale viandante di entrare per ripararsi dalle intemperie, ma anche per rifocillarsi. Tassativo era che lasciassero acqua e legna, prima di uscire. Nel caso di pernottamento dormivano sul fieno, quello che si faceva tutti quando ci si trovava in valle o sui monti con le bestie. Nella stagione estiva, anche per il contrabbandiere poteva essere quelle che oggi chiamano gite turistiche, ma in primavera e autunno era altra cosa. Abbiamo sentito raccontare di quando dovevano attraversare un laghetto quasi sempre gelato. In quel caso mettevano il sacco per terra e inginocchiati lo spingevano con precauzione attenti a verificare la resistenza del ghiaccio. Giunti sul versante opposto, la fatica diminuiva essendo il tragitto in discesa, ma la paura di incontrare la finanza si faceva più forte man mano che si avvicinavano al paese, dopo aver comunque atteso la notte. Allora, e solo allora ricevevano la ricompensa per quei tre giorni di viaggio. Se capitava di essere intercettati dalla finanza, che generalmente non sparava, ma all’intimazione di “giù la bricola”, dovevano abbandonare tutto e darsela a gambe levate, il danno della merce era del padrone, ma il contrabbandiere perdeva la ricompensa del viaggio e quindi, in tal caso, aveva faticato e rischiato per niente. Una classica via era anche quella attraverso la Carbonella con risvolti più o meno tragici, (che rimando a un’altra volta).
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