Trenino Rosso e migrazione nel passato
Trenino Rosso e migrazione nel passato

La scrittrice Luisa Moraschinelli fa una proposta: "Nell’ipotetico libro dei 100 anni del “Trenino Rosso”, inseriamo qualche pagina che parli della nostra nostra migrazione di confine?"

 

All’inizio della funzione del “trenino rosso” e oggi a coronamento del centenario, le voci di maggioranza sono quelle legate al turismo, per fortuna nostra e sua. E’ segno che gli altri problemi vengono in seconda linea, ma a noi di zona di confine, Valtellina e Grigioni, che lo seguiamo più o meno da vicino, per almeno tre quarti della sua esistenza, ci sia permesso “inserire” anche qualche pagina della nostra emigrazione.

Grosso modo mi limiterei ad almeno quattro pagine.

La prima,  legata all’emigrazione dei nostri padri, agli inizi, anni ’10-20? 

Anche se loro non ne beneficiavano ancora, almeno da testimonianza, lo incontravano sul loro cammino, quando per andare a fare la stagione estiva nei Grigioni, facevano la strada a piedi.

Partivano in primavera in gruppi di uomini e donne. I soldi per beneficiare del famoso trenino rosso non c’erano e non c’era neanche il cavallo e per loro e risalire a piedi il Bernina era oltremodo impossibile e quindi andavano a piedi, passando dalla Valmalenco per il Passo del Muretto. Sfociavano nei Grigioni e lì, strada facendo, sicuramente anche incrociando il trenino, passavano di casa in casa dai contadini e si fermavano a secondo della richiesta del momento o dal posto deciso l’anno prima. Passavano la stagione in lavori della campagna, e in autunno, sempre in gruppo, ritornavano per la stessa strada al paese.

Una seconda pagina e di festosa memoria, la dedicherei alle ragazze che negli anni alla vigilia della seconda guerra, andavano a fare la stagione nei rinomati Hotel di Celerina, St. Moritz, Pontresina e dintorni.

I tempi erano già migliorati e loro beneficiavano del “trenino rosso” per il viaggio. Era un’emigrazione gioiosa, almeno nei nostri ricordi di bambine di allora, per un felice fatto psicologico (a mio parere), queste allora con il solo permesso stagionale, partivano, già con la data fissata del ritorno in autunno e quindi non c’era quella andata senza un termine preciso, come capiterà ai più nel dopoguerra, noi compresi.

Il rientro, in autunno, di quella gioventù, dalla stagione negli hotel grigionesi,  portava nei paesi una certa atmosfera di gaiezza. L’unico rimpianto era di chi non aveva una sorella maggiore da attendere in quella felice occasione, anche se era poco quello che portavano loro. 

Infatti queste ragazze, oltre a portare Franchi d’argento per la famiglia, nascosti nei tacchi delle scarpe o fra le trecce, alle sorelle più piccole portavano le scatole dei cioccolatini (vuote) ma preziose per riporre il lavoro di cucito per andare dalle suore. Inoltre portavano piatti di porcellana (rifiutati dall’Hotel),  ma  che facevano grande figura allineati sulla credenza delle scure e fumose cucine.

Una terza pagina la dedichiamo all’emigrazione del dopo guerra (vissuta personalmente). Veramente, l’emigrazione in Svizzera di quel tempo, dai Grigioni, dove alcune famiglie nostre avevano già preso fissa dimora e qualche stagionale, occupato sui boschi e nei cantieri, l’emigrazione, a quel punto generalizzata a tutta la gioventù e non solo, si era spostata verso Zurigo, Berna, Lucerna ecc. 

A questo punto non sarà piu una emigrazione stagionale, ma annuale e quindi senza un limite di soggiorno, ma solo la speranza in un domani, quel domani, che per tanti non ci sarà, nemmeno  prima che i genitori se ne dipartiranno, né mai. 

(e questo è il prezzo pagato da questa emigrazione)

Comprensibile quindi quelle tristi partenze, vissute sia da chi partiva, ma ancor più dolorose per chi rimaneva al paese a aspettare. Partenze dolorose anche se i tempi, a quel punto, erano maturati per beneficiare tutti anche del “Trenino rosso”, che si prendeva di solito a Campocologno e non a Tirano, accompagnati dalle mamme dagli occhi arrossati per le lacrime versate da otto giorni prima. Quindi  in quelle circostanze, pur beneficiando del “Trenino rosso”, non poteva esserci il piacere che manifestano gli utenti di oggi, i turisti, risalendo e discendendo il Bernina.

Una quarta pagina la dedichiamo anche a quella emigrazione che finalmente, raggiunto il benessere, disponendo di una vettura propria, pur venendo da città lontane, Berna, Zurigo, attraversando le zone grigionesi, (perlomeno nella stagione estiva). Questi provavano un grande piacere, affiancando o seguendo il Trenino rosso) che faceva pregustare l’atmosfera del paese.

A questo punto, per esperienza personale, ne metterei un’altra di pagina, quella di una emigrazione d’elite, anche se non limitata alla nostra provincia, ma vista nel primo dopoguerra da vicino, lavorando per un certo periodo in un alberghetto sulla piazza della stazione di Tirano e quindi da un osservatorio diretto. 

Erano giovani di bell’aspetto che provenivano in treno dalle Regioni dell’Emilia e della Romagna. Non certo in jeans sfilacciati dei nostri giorni, pur nel benessere, ma elegantissimi e tirati a lucido. Pernottavano nell’albergo e il giorno appresso prendevano il rosso trenino, diretti nelle stazioni turistiche dei Grigioni, in piena rifioritura.

E quello che nessuno ha detto è che non avevano la tanto reclamizzata valigia di cartone, come bagaglio annesso, ma addirittura il baule. Baule che non portavano a mano, ma dal treno all’albergo erano i tradizionali facchini ad assolvere a quel servizio.

Nel baule avevano le eleganti livree che gli hotel - cinque stelle -, dei Grigioni, richiedevano per camerieri, metrohotel, portieri, cuochi, ecc… 

Di solito facevano le stagioni estive e invernali. Alla fine, al ritorno  erano attesi nell’albergo, dove pernottavano per ripartire il giorno seguente verso i loro paesi. Nell’occasione dispensavano laute mance e fornivano preziosi consigli al personale di servizio dell’albergo.

 

Cinque pagine di memoria storica legata anche al “Trenino rosso” se pur più o meno marginalmente, della nostra emigrazione di frontiera, augurando che nella sua nuova veste blasonata UNESCO, che continui come è ora di mezzo di transito anche attraverso una frontiera. Frontiera che c’è, ma non si vede e soprattutto, non si sente, da uomini liberi, se pur nel rispetto reciproco dei due Paesi.

Luisa Moraschinelli/Lugano/Aprica maggio 2010


Data: 30/05/2010