VIE DEL CONTRABBANDO DI APRICA: TRAGEDIA SULLA CARONELLA

Come promesso nella parte precedente in cui ho descritto la via "Val Belviso", ci spostiamo ora su quella della "Caronella", altra classica via  del contrabbando in tempi lontani.

Veramente, a differenza della Val Belviso, questa non la conosco che per sentito dire. Pure è una via famosa anche per altri motivi. Infatti ancora ai nostri giorni, ogni anno, dall’Aprica va’ in pellegrinaggio, chi ha gambe buone,  a Ardesio,  per quella via, ma in questo caso, ma rimandendo in ambito di contrabbando ho una storia sentita dalla viva voce di un protagonista e, anche se ho avuto modo di parlarne in altre circostanze, penso valga la pena ricordarla nel contesto.

Ignazio (nome fittizio) era un ragazzotto 15-16 anni, allora.. Di famiglia numerosa e visto i tempi di miseria di tempo di guerra,  cercava, come tutti allora, di guadagnare il pane dove era possibile. Con il fratello maggiore, se capitava  di fare un viaggio a portare il “sacco” lo faceva.

Una domenica di riposo era sceso al piano (a Piateda) dove c’era il padre a lavorare e passando di casa in casa da amici comuni, tenuto conto che allora, in quei paesi  era abitudine tenere il boccale del vino sulla tavola, sia per la famiglia che per i ospiti, sorso di qua uno di là, Ignazio abituato solo all’acqua fresca d’Aprica, alla sera è tornato sì a casa, ma come sia arrivato non lo ricordava affatto.

Giunto a casa, senza dare spiegazioni, ma era evidente il suo stato, si era buttato sul primo letto o pagliericcio trovato e lì era "piombo", come si dice in gergo.

Non aveva comunque un lavoro fisso e quindi poteva aspettare comodamente che la sbornia passasse, ma a un certo punto della serata, suo fratello maggiore arrivò in casa accompagnato da un paio di uomini forestieri.

 Si trattava di un caso urgente. Sulla montagna da giorni c’era un gruppo di “spalloni” che non era arrivato a destinazione e non aveva dato segno di vita. I due uomini, con altri, erano venuti in macchina dalla bergamasca a cercare chi li potesse aiutare. All’epoca non c’era il soccorso alpino e nemmeno i telefonini. Non c’erano che amici “spalloni” che conoscevano i sentieri della montagna cui chiedere aiuto.

Il ragazzo, giovane e forte, era più che necessario in quella emergenza, ma in tali condizioni proprio era impossibile muoverlo. La mamma supplicò che aspettassero almeno qualche ora.

A quel punto gli uomini, con il fratello maggiore, andarono dal bottegaio della contrada, anche se chiuso a quell’ora, a supplicarlo di rifornirli di viveri e riempirono i sacchi che pensavano di poter portare con loro, sperando di giungere in tempo a salvare quegli uomini.

Finalmente a una certa ora della notte Ignazio si era svegliato e, ormai abituato alle grandi fatiche,  si unì al gruppo e via verso l’imbocco della Val Belviso  e in direzione Carona risalirono la montagna in direzione Caronella. Con grande fatica visto che nevicava e certo non con gli attrezzi e indumenti dei nostri giorni. Ignazio, raccontando a distanza di anni, ricordava  il freddo per  i pochi indumenti addosso e  la fatica di procedere sulla neve fresca.

Solo sul fare del giorno arrivarono al passo della Carbonella dove loro sapevano esserci forse l’unica baita-rifugio (non l’attuale rifugio), e lì hanno trovato tutti gli uomini vivi, ma in uno stato pietoso, sia per la fame che per il freddo, tanto che in un primo momento si rifiutavano di muoversi, ormai rassegnati alla morte. 

Ma dopo averli rifocillati riuscirono a convincerli che bisognava tentare di scendere in ogni modo. Fortunatamente, trovandosi ormai sul versante opposto e quindi in discesa e favoriti dalla neve fresca e di grande spessore,  non poterono fare altro che trascinare  quegli uomini, sacchi compresi, verso il piano. 

Finalmente, quasi a sbalzi, diremmo noi, arrivarono in vista di una prima baita e li, avvistati, si mossero altri uomini incontro, che attendevano da giorni e  fu la salvezza per tutti. 

Da immaginare il trambusto. Fu inviata subito una persona al paese dove le famiglie ormai disperavano di vedere i loro uomini ritornare vivi e la voce in un baleno si diffuse.

A quel punto i nostri soccorritori avevano finito la loro missione per cui, ricevuto la ricompensa, (non certo adeguata al merito e al rischio), si trattò di riportarli a casa, all’Aprica.

Ignazio ricorderà ancora il tragitto da quella baita al paese, (Schilpario?) su una moto con il carrozzino annesso, in 6 persone ammassate le une addosso alle altre e lungo una strada di montagna, quindi da immaginare come sono scesi. 

Dal paese poi all’Aprica, invece, fortunatamente li avevano riportati con un mezzo motorizzato.

Storie vere che dimostrano come gli uomini si aiutano anche nelle situazioni più disperate. 

I protagonisti con il tempo scompaiono, come nel caso di Ignazio e suo fratello e supponiamo anche i salvati in quella circostanza, ma le buone azioni rimangono nella storia, se non dei mezzi d’informazione, nella mente di chi le ha recepite e le tramanda.

 

Luisa Moraschinelli, Aprica luglio 2010


Data: 26/07/2010